Sono rimasto colpito dalla semplice lucidità di un articoletto, scritto da Stefano Bartezzaghi nella rubrica Lapsus nella Repubblica di sabato 4 aprile 2009, tanto da sentirmi in dovere di provare a salvarlo dall'oblio, per 5 minuti ancora.
Io, indubbiamente, preferisco le parole semplici e -mentre pulisco il naso alla piccola Tamagothi di sette mesi- mi limito ad osservare che: se c'è una cosa sicura nella vita, questa è la morte.FINE VITA
Adesso e nell'ora del nostro fine vita, amen. Il linguaggio impoliticamente corretto ha delle trovate non solo ammirevoli, ma anche deliziose. Questo fatto che tocca morire, per esempio, è da sempre ritenuto seccante. Persino Gesù, che era Gesù, quando è arrivato il momento ha trovato qualcosa da ridire. Pur nominando una brutta cosa, morte è una bella parola: facile, precisa, piena di anagrammi (metro, tremo, torme...) e rime (sorte, porte, forte, coorte, aorte). Per non evocarla, col rischio di chiamarla a sé, la si sostituisce con «il fine vita», sorta di week end esistenziale in cui invece che il fiato si tirano le cuoia. Del fine vita si può così finalmente discutere, in quel nostro modo appassionatamente caotico che tanto incuriosisce gli osservatori esteri. Della morte si continua a tacere, e l' importante è quello.
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